Subject: De nomines daemonum Date: Tue, 09 Sep 2008 21:57:02 +0200 From: Massimo Soricetti Organization: Servidellagleba.it News Server Newsgroups: it.discussioni.psicologia Si dice che per evocare un demone, o per esorcizzarlo, è necessario conoscerne il nome. In una certa misura questo è vero anche per una malattia o un disagio, fisico o psicologico: sapere che cos'hai toglie il tuo dolore dal regno delle impressioni soggettive e "lo rende reale", in un certo senso: sai che hai qualcosa, sai che devi curarti e che c'è qualcosa da fare per stare meglio (paradossalmente anche quando stare meglio non si può). Anzi, per un problema psichico, che giocoforza è completamente "non tangibile", questo "effetto terapeutico della diagnosi" dovrebbe essere ancora più forte... ma lo è davvero sempre? Se il paziente non volesse nemmeno sentir parlare della sua malattia, se non avesse il coraggio di affrontare i propri demoni, dirgli che cos'ha sarebbe davvero la strada migliore per aiutarlo? Ma è poi davvero tutto qui? La scelta di comunicare una diagnosi durante un colloquio psicologico dipende solo dalla volontà del paziente o c'è altro da considerare (credo di sì)? P.S. Vi è mai capitato (a chi fa lo psicologo in primis, ma nel loro piccolo anche a tutti gli altri) di sbagliare la mira, cioè dire a qualcuno la verità (su di lui, oppure su una questione scomoda che lo riguardava) e di vederlo *inaspettatamente* chiudersi a riccio, o reagire in malo modo? Nel dubbio, come vi regolate? Cioè se avete qualcosa da dire che secondo voi l'altro farebbe bene a conoscere ma non sapete come l'altro la prenderà, in base a che criterio decidete se parlare chiaro o fare gli gnorri e sperare che prima o poi veda la luce??