Subject: Re: lo scetticismo: una storia dell'immaginazione Date: Sun, 16 Dec 2007 09:28:25 GMT From: L Organization: [Infostrada] Newsgroups: it.cultura.filosofia.moderato Davide Pioggia wrote: [...] > > Ora che siamo arrivati, torniamo indietro all'inizio, quando ti dicevo che > quella cosa che tu hai descritto come "filosofia" certi psicologi la > metterebbero nei loro manuali di psicopatologia. La questione cruciale è > proprio quella della *libertà*. Per lo psicologo non è importante il fatto > che una componente della tua personalità sia capace (o desiderosa) di vivere > in contemplazione del "problema". Ciò che è importante è che "Tu" possa > ridurti ad essere "agito" totalmente da quella personalità, perdendo quella > libertà che è propria dell'"Io". > > Questa cosa da qualche tempo comincia ad essere chiara anche agli > psichiatri, che pure hanno sempre avuto un approccio più "medico" con il > disturbo psichico. Così già negli anni '60 lo psichiatra francese Henry Ey > scriveva che «le patologie organiche sono minacce alla vita, le malattie > mentali sono attentati alla *libertà*», e qualche anno dopo il suo collega > italiano Gian Carlo Reda ribadiva che «la psichiatria è dunque ancora la > scienza medica che studia la perdita della *libertà* dell'uomo malato e si > preoccupa di fargliela riavere» [asterischi miei, citati in L. Secchiaroli, > _Principi di psichiatria_, Carocci 2005]. > > -- > Saluti. > D. Sarà colpa di Solania, sarà colpa di altro .. il tema toccato mi sembra che investighi molto la relazione tra l'id e la sofia, più che essere eminentemente discorso sulla sofia. Sperando anche di non perdermi in un mare di parole, anch'io -nella catacomba dei 4 o 5 che si riuniscono fuori dal senso comune ad esaminare "il problema"- dirò una riflessione: Hai centrato -secondo me- bene il fatto che sappiamo poco o nulla delle relazioni tra ciò che il nostro pensiero esamina (contemplazione) e ciò che il nostro pensiero decide di fare suo (id-entificazione). Manchiamo -però- nella capacità di gestire -per il 99% della popolazione- dei rudimenti di base. Se una madre accoltella un figlio di 7 anni e l'altra figlia di 9 telefona al padre idraulico che la madre è matta .. al più sappiamo "sedare" la madre e metterla in stato di arresto in una sezione psichiatrica di un ospedale. Non sono parole che gridano vendetta? .. nel silenzio di investigare come un tale *orrore* possa configurarsi nella normalità della vita quotidiana(?) (o nella psicopatologia della vita quotidiana?) Ma il giornalismo non ritiene di entrare nei dettagli, né sanno farlo gli "specialisti" che si fermano di fronte alle frasi sconclusionate del "il Signore me lo aveva detto" .. o ridicolaggini -pur vere- similari. La Psicologia è temuta come equilibrio delicato -mediamente- da non perturbare. Una cosa da investigare -al più- se si è in parte "disturbati" per qualche causa che ci metta in difficoltà rispetto ad una norma. E' lì -a mio avviso- la fondazione che ci impedisce di poter/saper gestire la immaginazione (staremmo esaminando la "storia della immaginazione", mi sembra), e con lei -immaginazione- il senso della parola libertà. Confondiamo -ne sono convinto- la parola libertà con la parola normalità. Quando diciamo: "ma perché io non posso esser libero di fare questo?" (Mi astraggo persino -se mi consentite- anche di specificare *cosa*, proprio per mettere in luce "il fare strategico"). Non ci stiamo riferendo al diritto di avere, anziché a quello di essere? Ossia: non agiscono -in noi- le spinte potenti del *senso comune* che ci dicono che avremmo diritto di accedere alla libertà, come potere di "prenderci (avere) delle libertà"(?), (di essere un "popolo delle libertà"?) : - ) Quindi non abbiamo investigato (ordinariamente, nella popolazione media) -secondo la mia teoria- la linea di demarcazione che traccia il confine tra il diritto di esaminare (ed esaminare anche -quindi- l'orrore, ciò che non condividiamo) & il diritto di accogliere (avere, fare nostro). Sul fatto che vi sia una *frontiera fissa* (tra contemplare & accogliere) in cui siamo certi che "respingeremo le vittime sacrificali e sceglieremo gli antibiotici"(che era l'esempio di Davide preso a campione, in una teoria della misura non perfezionabile), è il *pregiudizio* della necessità della coesistenza "sia del relativismo/ sia del dogmatismo", in noi. Ma tale frontiera è ***mobile***, è nel fatto che sia mobile!!! risiede la nostra "dignità divinamente ordinaria" di persone in grado di intendere e volere non una tantum, ma *in progress*, finché siamo vita, mutazione, spostamento in avanti o indietro quella frontiera tra ciò che esaminiamo o respingiamo .. andando a vedere le ragioni per cui sarebbe il caso di farlo. Ciò che è detestabile, allora, non andrebbe temuto -> ma tolto dal pathos, perché non ha una sua potenza di contaminazione obiettiva, ma solo soggettiva e tanto più potente quanto più i nostri strumenti sono deboli e non avvezzi allo studio della norma e della patologia. Anziché "temere che troppe voci vi siano nella nostra mente", bisognerebbe cominciarsi a porre il problema di saper esaminare «cosa abbiamo da dire che sia degno di essere accolto e perché». In tal senso la *sorella matta* della filosofia, la psicologia, rientrerebbe a giusto titolo nel consesso di coloro che abbiano delle cose da dire e non solo quando siamo su un letto di ospedale. Ciao Davide, grazie dell'occasione, Lino