Subject: Re: Dfinizione del filosofo Date: Mon, 31 Mar 2008 22:24:11 +0200 From: "Marco V." Organization: TIN.IT (http://www.tin.it) Newsgroups: it.cultura.filosofia.moderato "Davide Pioggia" ha scritto nel messaggio > No, la verità non ha bisogno di parlare. Si limita a starsene sotto gli > occhi di tutti. Sì, ma io torno a domandarlo. Che cosa significa stare sotto gli occhi di tutti? > Ad esempio se ti muore una persona cara piangi, e in quella sofferenza c'è > la tua consapevolezza di che cosa è la morte, ché se fosse altro da quel > che > è non piangeresti, ma magari rideresti. Noi di fronte alla morte piangiamo > perché sappiamo bene che cosa è la morte, Qui colgo una fondamentale ambiguità. Il nostro sapere che cosa è la morte è il nostro stesso piangere? Oppure, per così dire, prima sappiamo che cosa è la morte, e poi piangiamo? Solo nel primo caso si darebbe quella identità di teoria e prassi, la quale identità è ciò che di solito viene contrapposto alla presunta potenza della filosofia (per la serie: tu filosofia, se anche dimostrassi la impossibilità, e dunque l'inesistenza, di ciò che l'uomo intende quando parla della morte, non avresti, tramite la tua dimostrazione, alcuna potenza sull'uomo e sul suo rapporto esistenziale con la morte e la mortalità, perché il rapporto dell'uomo con la morte è costituito non da un insieme di contenuti proposizionali eventualmente esposti alla dimostrazione di contraddittorietà, ma è costituto da *quelle lacrime*, che tu filosofia non potrai mai far scomparire dal volto dell'uomo che piange per la morte di una persona cara). Nel secondo caso, invece, si dà la possibilità di intervenire *sul* contenuto del sapere attraverso i procedimenti del sapere stesso. Tali procedimenti potrebbero in teoria mostrare l'impossibilità del contenuto che il sapere ha quando è il sapere che cosa la morte è: l'impossibilità della morte. Ieri mi trovavo proprio agli scavi di Elea (non in pellegrinaggio, però:-)): hanno messo la (presunta) erma di Parmenide in una stanza di un museo, e sotto hanno riportato dei celebri versi del suo poema: "è necessario il dire e il pensare che l'essere sia: infatti l'essere è, e il non essere non è". Puoi immaginare la fatica che ho fatto per cercare di spiegare il significato (cioè quello che mi sembra essere il significato) di quelle parole alla persona che era con me, alla quale esse sembravano, come dici tu, il delirio di uno squilibrato mentale. (la persona che era con me sembrava più interessata a cercare di capire che cosa Parmenide potesse aver combinato, dietro le quinte del pensiero filosofico, col suo allievo Zenone). Ma intanto: se prima sappiamo (e pensiamo) e poi piangiamo, allora il pensiero *può* sempre dire che la morte che piangiamo è l'impossibile non esser più di un essente. Ciò non priverà certo le lacrime della loro realtà, ma avrà l'effetto di un enorme ampliamento della giurisdizione del pensiero, perché anche le lacrime saranno connesse ad un "contenuto" (ed il pensiero ha giurisdizione proprio sui "contenuti", che altro non sono che i "pensati") >Invece mi limito a constatare che la condizione > umana è talmente fragile e disperata che per sopravvivere abbiamo bisogno > di > raccontarci continuamente delle balle. È per questo che abbiamo inventato > il > linguaggio. Sì, certo. Questa è la tua teoria fondamentale: per te non esiste una realtà indipendente dal linguaggio, e tuttavia esiste un "punto singolare" (che è quel punto in cui la realtà si fa "sentire") che non può essere mutato dalle operazioni logico-linguistiche dell'intelletto - essendo l'intelletto non altro che il gran maneggiatore del linguaggio. Ma esiste uno spazio in cui possa sopraggiungere la chiamata della ragione - uno spazio in cui dunque si ponga il problema se anche quella <> di cui parli, sia sottoposta all'alternativa apofantica vero/falso, e cioè alla possibilità di essere una <>? Un saluto, Marco