Subject: è inumano voler affermare la verità? Date: Tue, 14 Jul 2009 09:34:43 -0700 (PDT) From: silvie Organization: http://groups.google.com Newsgroups: it.discussioni.psicologia La domanda dell'oggetto tiene conto della relatività della "verità"... ma vorrei comunque fosse intesa come verità-vera-propria della persona, che ne sia consapevole o meno (poco scientifico?) Forse sono giorni troppo caldi per pensare a queste cose...parto da esperienze che vivo e vedo vivere, ma naturalmente le mie domande sono di carattere generale. Prendo in prestito un passo da un libro per avere parole più chiare di quanto potrebbero esserlo le mie: "Ma che cosa accade qualora sia impossibile comporre la conflittualità? In questo caso, non è meglio forse che l'uomo viva in compagnia delle sue illusioni, anziché con la coscienza di una verità dolorosa e per di più incapace di assicurargli la libertà nella vita reale? [...] Di primo acchito, il desiderio di non provocare inutili sofferenze sembra una motivazione più che sufficiente perché si eviti di togliere all'uomo le proprie illusioni. E tuttavia non posso fare a meno di nutrire dubbi su una risposta di questo tipo: non sarebbe come chiedersi se sia opportuno dire la verità a un paziente affetto da un male inguaribile? Tacendogliela, non gli si nega l'ultima possibilità di guardare in faccia la propria vita, di radunare tutte le forze rimaste inattive fino a quel momento e raggiungere - oltre la soglia dell'angoscia - uno stato di tranquillità e di ferma determinazione? La maggiorparte delle persone che ne ha discusso converrà sul fatto che la risposta dipende dalla personalità del malato e che occorre anzitutto sapere valutare correttamente le sue capacità di reazione reali o potenziali, e capire i suoi desideri più profondi e spesso inespressi. A me, comunque, appare disumano imporre a una persona la verità solo per il fato che, dogmaticamente, si crede che sia "la cosa migliore". Vorrei chiedervi se anni di dibattiti su questa domanda abbiano portato al delineare una condotta più o meno seguita o "giusta" al di là del dover valutare caso per caso. In quel libro (Da avere ad essere, di E.Fromm) si parlava del riuscire o meno a percepire la propria essenza, di trovare i conflitti nascosti per arrivare al benessere, con alcuni spunti dal buddismo o da Marx. Ma chi sa (o crede, o sente) che soffrirebbe ancora di più a guardare il proprio conflitto e non fa che lavorare per allontanare la soluzione, proprio perché non può averla subito e non ce la fa più? Anche se è brutto dirlo, in caso di malattie del tutto fisiche è più facile decidere cosa sia meglio, mentre farsi carico dell'interiorità degli altri è più difficile e soprattutto è una condizione che può mutare e anche avere effetti peggiori senza che si vedano i sintomi. Grazie