Subject: Re: il nome della cosa Date: Sun, 08 Jun 2008 17:11:58 GMT From: "Davide Pioggia" Organization: [Infostrada] Newsgroups: it.cultura.filosofia.moderato Marco V. ha scritto: > Questione molto interessante, di cui la filosofia contemporanea (che in un > certo senso emerge proprio dalla posizione di questa questione) crede di > conoscere la risposta, e che qui mi limito a porre, a margine... Volendo tirare in ballo la prospettiva della filosofia contemporanea, possiamo prendere le mosse dal notoarticolo di Quine, _On What There Is_, pubblicato per la prima volta nel 1948 sulla _Review of Metaphysics_, e che ora si può trovare riprodotto integralmente qui: http://en.wikisource.org/wiki/On_What_There_Is Come sappiamo la logica moderna costruisce linguaggi formali fornendo dei criteri per la costruzione di _formule_, e in tali formule possono comparire delle _variabili_, le quali possono essere _libere_ (_free_) o _vincolate_ (_bound_) a seconda che siano o meno _quantificate_. Quando tutte le variabili sono quantificate, ovvero quando in una formula non ci sono variabili libere, allora quella formula è un _enunciato_, cioè una espressione di cui si può dire che è _vera_ o _falsa_. Ebbene, questo modo di costruire la logica moderna si ricollega al discorso che stiamo facendo non appena leggiamo, nell'articolo di Quine, il passo in cui egli parla delle «words of the kind that logicians call bound variables, variables of quantification, namely, words like 'something', 'nothing', 'everything'». Dunque ci sono certe parole particolari del "linguaggio naturale" che rappresentano le variabili vincolate, cioè le variabili quantificate, e queste parole sono - in inglese - _some-thing_, _no-thing_, _every-thing_. In italiano noi diciamo "qualcosa", "nessuna cosa" (ovvero "ni-ente"), e "qualunque cosa" (o "tutto"). Continuando la lettura si arriva ad un passo celebre di quell'articolo: «To be assumed as an entity is, purely and simply, to be reckoned as the value of a variable». Dunque possiamo dire che X è una entità solo se viene "contato" (o meglio, incluso) fra tutti i possibili valori di una variabile. Ma che cosa è una entità? È per definizione, ciò che "c'è". Dunque alla domanda posta dal titolo dell'articolo possiamo rispondere che c'è tutto ciò che può essere il valore di una variabile. Subito dopo Quine riformula in una sola frase quanto abbiamo detto fin qui, quando scrive: «The variables of quantification, 'something', 'nothing', 'everything', range over our whole ontology, whatever it may be; and we are convicted of a particular ontological presupposition if, and only if, the alleged presuppositum has to be reckoned among the entities over which our variables range in order to render one of our affirmations true». Dunque le nostre variabili variano su tutta la nostra ontologia. Ma tutta la nostra ontologia è tutto ciò che c'è, tant'è che l'inglese esprime il "tutto" in modo analitico con _everything_. Arriviamo così a capire meglio il senso di quella risposta alla domanda posta dal titolo, che Quine aveva dato fin dall'inizio dell'articolo nella forma un poco provocatoria della tautoogia banale, quando alla domanda «What is there?» aveva risposto «Everything», affermando così che il problema della ontologia si lascia esporre in tre parole e ad esso si può rispondere con una parola sola. Che cosa c'è, dunque? È ovvio: tutto, ogni cosa! Siamo dunque in grado di dire che cosa è una "cosa"? Sì e no. Infatti abbiamo detto che "qualche cosa", "nessuna cosa" e "ogni cosa" sono espressioni che il linguaggio naturale usa per esprimere quelle che i logici chiamano delle variabili quantificate. Ebbene, qui è chiaro che il quantificatore è rappresentato di volta in volta da "qualche", "ogni" e "nessuna", per cui "cosa" risulta essere una variabile che varia su tutta la nostra ontologia, cioè su tutto ciò che c'è. Dunque "cosa" si riferisce genericamente ad un qualunque oggetto del quale si possa dire che c'è. E siccome un "oggetto" è esso stesso una "cosa", allora alla fine stiamo dicendo che una "cosa" è una cosa che c'è, e poiché tutte le cose sono tali perché ci sono, alla fine ci siamo ridotti a dire che una cosa è una cosa. Tanto era chiaro fin dall'inizio che eravamo arrivati al capolinea del linguaggio, e infatti per dire che cosa è una "cosa" non abbiamo saputo far altro che spostare ogni volta il problema un po' più in là, finché non ci siamo ritrovati al punto di partenza. Che siamo giunti al limite del linguaggio lo capiamo anche andando a leggere la definizione di "cosa" che dà il _Dizionario di Filosofia_ di Abbagnano, il quale solitamente è chiarissimo e rigorossissimo, ma in questo caso annaspa, tant'è che anziché tentare di fornire una definizione sintetica non riesce a far altro che fare un elenco di tutti i tipi di oggetti che possono essere delle "cose", e sfuma l'elenco quasi volesse dire: "...e altre cose di questo genere". Scrive infatti: «nel [significato generico], la parola è uno dei termini più frequenti del linguaggio comune e viene anche abbondantemente adoperata dai filosofi. "C." può essere il termine di un atto di pensiero o di conoscenza oppure d'immaginazione o di volontà; di costruzione o di distruzione, ecc. Si può parlare di una C. che è nell'immaginazione, o nel cuore, o nei sensi, ecc. Sicché si può dire che in questo significato C. significa un termine quasiasi di un quasiasi atto umano o, più esattamente, un qualsiasi oggetto in cui in un modo qualunque si abbia a che fare». Devo dire che fa un po' impressione vedere l'ottimo Abbagnano ridursi a scrivere che «un qualsiasi oggetto in cui in un modo qualunque si abbia a che fare» è un modo per esprimere «più esattamente» il concetto di "cosa". Mi verrebbe da chiedergli se riesce a concepire qual-cosa di cui non si possa dire che ci si può avere a che fare in un modo qualunque. ========== Ma allora, ne sappiamo esattamente quanto prima? Visto che non siamo in grado di dire che cosa è una cosa, se non che una cosa è qualcosa che è, possiamo almeno fare l'elenco delle cose, oppure dobbiamo includere nel nostro "Mondo" anche Pegaso, riconoscendogli lo stesso stato ontologico del Partenone? Visto che siamo interessati a fare la "lista" delle cose che ci sono, cioè delle cose che sono nella nostra ontologia, e che costituiscono tutto ciò che c'è, cioè tutto ciò di cui ha senso parlare, arrivati a questo punto potremmo essere tentati di dire che tutto ciò che c'è appartiene all'insieme di tutto ciò che c'è. Questa sembra una banale tautologia, ma vediamo di riflettere meglio su di essa. Tanto per cominciare, non poniamoci limiti inutili, e visto che disponiamo del concetto di "classe", che è più generico di quello di "insieme" (tutti gli insiemi sono classi, ma non è vero il contrario), chiediamoci se tutto ciò che c'è possa costituire una classe. Come sappiamo, una classe resta associata ad un predicato, e precisamente ne è la sua estensione. Così la classe di tutti gli oggetti rossi è costituita da tutti gli X tali che l'enunciato "X è rosso" è vero. In questo caso il predicato è "è rosso". Ebbene, se noi vogliamo parlare di tutto ciò che c'è come di una classe, dovremmo per prima cosa capire qual è quel predicato da associare a tale classe. Tale predicato sembrerebbe essere espresso da "c'è" o "esiste", oppure dalla voce verbale "è" usata - come si dice - in senso esistenziale o assoluto. Dunque la classe di tutto ciò che c'è - alla quale potremmo anche dare un nome proprio, come Mondo o Universo - sarebbe la classe di tutti gli oggetti X per i quali si ottiene un enunciato vero quando di essi si predica che "ci sono" o che "esistono" o che "sono" (in senso assoluto/esistenziale). E, come dicevo, il Mondo o l'Universo non sarebbero altro che la classe di tutto ciò per cui può essere predicato l'esser-ci, cioè la classe di tutto ciò che c'è. Sembrerebbe tutto facile, ovvio, e persino banalmente tautologico, se non fosse che saltano fuori problemi a non finire, nella forma di contraddizioni, antinomie, e altre disgrazie del genere. Già Kant ha mostrato chiaramente quali antinomie possano prodursi dalla semplice pretesa di parlare del Mondo, inteso come tutto ciò che c'è. Se poi non vogliamo parlare del Mondo, ci possiamo concentrare sul verbo "essere" in senso assoluto, e chiederci se esso realizzi davvero ciò che in logica si intende come "predicato". Ebbene, come è noto i conti non tornano. Per rendersene conto basta considerare che se "essere" (in senso assoluto) fosse un predicato, allora anche la sua negazione lo sarebbe, e dunque "non essere" sarebbe un predicato. Ma allora quando volessimo dire che "X non è" noi avremmo la negazione di "X è", per cui X sarebbe qualcosa di cui si può predicare "è", dunque X "sarebbe" e "non sarebbe" allo stesso tempo, il che è contraddittorio. Nello schema di Quine, negando che "X è" noi staremmo dicendo che X può essere il valore di una variabile, ma ciò che è il valore di una varibile è, per cui dicendo che non è stiamo ponendo una contraddizione. Parmenide, che si era accorto di questa difficoltà logica, non arrivò a capire quel che avrebbe capito chiaramente molti secoli dopo Kant, il quale si rese conto che dicendo che una cosa "esiste" non aggiungiamo ad essa una qualche "proprietà". Ora, quando è data una certa proprietà, si può fare di quella proprietà una "cosa", da aggiungere eventualmente al proprio Mondo. Così se ci sono degli oggetti dei quali si può predicare che sono rossi, allora in una opportuna ontologia anche "l'essere rosso" potrà eventualmente essere considerato "qual-cosa". Ma dal momento che "essere" non è un vero predicato (anche se grammaticalmente ha la forma di tutti gli altri predicati) e dunque non esprime una proprietà, non si può dire che "l'essere" o "il non essere" sono "qual-cosa". Invece Parmenide, pur essendosi accorto della difficoltà logica, fece proprio questo, e tirò fuoi quella assurdità totale secondo la quale «l'essere è e il non essere non è». Una espressione alla quale non si sa proprio che significato attribuire. Il problema sollevato da Parmenide passò quindi nelle mani di Platone e Aristotele, i quali si resero conto che l'"essere" non era un predicato, ma disgraziatamente se ne resero conto in modo confuso e intermittente. Che se ne siano resi conto è certo, perché lo scrivono in modo esplicito, a cominciare da Platone, che nel _Sofista_ compie il famoso "parricidio" nei confronti di Parmenide, ponendo la distinzione fra "essere assoluto" e "essere relativo". Aristotele poi lo scrive chiaramente nel trattato _Sulla Interpretazione_: «L'essere o il non essere non costituiscono proprietà di soggetti, neppure quando si dice semplicemente che "qualcosa è". L'essere non è nulla di assoluto, ed esprime soltanto una congiunzione che non ha senso senza i congiunti». Coerentemente con questa raggiunta consapevolezza, Aristotele non pose mai "l'essere" al vertice delle sue categorie, benché questo atto gli avrebbe offerto la possibilità di porre una unità laddove troviamo una decina di categorie. Ma tale consapevolezza venne completamente a mancare quando egli si imbarcò addirittura nella impresa di fondare una "scienza dell'essere" (quella che poi fu chiamata _metafisica_ o _ontologia_); e per di più a "parricidio" già avvenuto riscrisse più volte affermazioni del tutto insensate come quella di Parmenide, arrivando anche ad affermanre che «è impossibile che l'essere non sia». (Pitagora aveva usato la matematica come fondamento di un certo movimento spirituale, e questo lo aveva costretto a costringere la matematica nello spazio angusto di un tale fondamento. È vero che la passione mistica è un grande incentivo intellettuale e fornisce spesso le energie necessarie a spingersi laddove altri non sono mai arrivati, ma è anche vero che poi chi voglia usufruire dei risultati di queste imprese deve stare attento a non farsi fuoriviare dalle distorsioni prodotte dalle motivazioni che hanno alimentato quella impresa. Così, per fare un altro esempio molto più recente, Maupertuis riuscì a formulare per primo il principio di minima azione mentre cercava una prova della esistenza di Dio, e lo considerò sempre a quella stregua. Oggi quasi tutti i trattati di fisica teorica sono basati su varianti raffinate di quel principio, ma nessun fisico che io conosca considera quel teorema una prova della esistenza di Dio, tant'è che la stragrande maggioranza di essi non si considerano religiosi, per lo meno in senso tradizionale. Ebbene, anche Platone e Aristotele fecero certamente delle notevoli scoperte nel campo della logica, tuttavia essi non erano tanto preoccupati di fondare la logica, ma stavano investendo tutte le loro energie nella fondazione di quella particolare religione per mistici intellettuali che - come si è detto - oggi viene definita _metafisica_ o _ontologia_. Non soprende dunque che essi non abbiano esitato a sacrificare la logica a quella loro impresa, e che nonostante la loro indubbia intelligenza essi si siano vietati di vedere alcune implicazioni immediate di ciò che andavano scoprendo. D'altra parte anche tutti i testi che ci sono pervenuti dalla antichità classica sono passati più e più volte nello stilo di monaci amanuensi, i quali hanno vagliato alla luce della loro fede che cosa copiare e cosa non copiare, o magari anche che cosa modificare e cosa lasciare inalterato. Così chi oggi si occupi di filologia, o voglia recuperare il panorama complessivo della cultura classica, deve cercare di ricostruire l'oggetto del suo studio partendo da quel poco che è filtrato attraverso quel filtro che era sì fortmenente motivato a tramandare ciò che altrimenti si sarebbe perduto, ma proprio perché era fortemente motivato era anche fortemente distorcente. Anche per Platone ed Aristotele abbiamo una dinamica di questo genere: essi sono principalmente i fondatori di una religione, e siccome quella religione era diretta agli intellettuali dell'epoca, essa indagava anche la logica e faceva scoperte in quel campo, ma era pur sempre una indagine subordinata ad una istanza religiosa, tant'è che in Platone e Aristotele i mistici di tutti i secoli successivi hanno sempre trovato materiale in abbondanza per giustificare ogni loro fantasia. L'energia mentale per una grande impresa intellettuale viene sempre da una passione forte, che può essere quella sessuale, o quella religiosa, o il desiderio di potere (in realtà sono tutte riconducibili ad una sola, ma questo è un altro discorso), e tale impresa viene sempre subordinata al perseguimento della meta di quella passione. Così se noi vogliamo usufruire dei risultati delle energie investite da altre menti, dobbiamo prima liberare quei risultati dalle deformazioni prodotte da quella subordinazione.) La logica moderna, preso atto che dall'ipotesi che "essere" sia un predicato si ricavano delle contraddizioni, respinge coerentemente quella ipotesi, e la respinge non un giorno sì e l'altro no, ma tutti i giorni. Una volta respinta quella ipotesi, in un linguaggio formale non c'è spazio per un predicato che esprima l'"essere", per cui si ricorre ai quantificatori, e in particolare al quantificatore esistenziale, che non è un predicato. Ma allora, che ne è del problema che ci eravamo posti, che consiste nel fare una "lista" di "tutto ciò che c'è"? Ebbene, quella "lista" non è una classe, quindi non potrà essere descritta o definita in modo implicito, dicendo che tutte le cose che soddisfano certe proprietà sono in quella lista; poiché quella lista comprende tutte le cose, e il fatto di essere incluse in essa non è una proprietà. Tutto ciò che potremo fare sarà fornire un *algoritmo*, una *procedura*, per costruire un certo Mondo. E come si fa a fornire un tale algoritmo? Un modo è quello di partire da una "base" e poi procedere in modo "ricorsivo", applicando una certa operazione elementare (o un numero finito di operazioni elementari) a quella "base". Nella sua _Introduzione alla logica_ Ettore Casari ci spiega come procedere in questo modo per costruire un linguaggio: «Giova qui osservare che la determinazione di ciascuno di questi due tipi [i _termini_ e le _proposizioni_] fa spesso uso di una _procedura definitoria_ detta _ricorsiva_ o _induttiva_, che isola, in mezzo a tutte le altre, le parole desiderate attraverso tre passaggi: nel primo, la _base_ [B] della definizione, si specifica un certo stock iniziale di parole desiderate; nel secondo, il _passo_ [P] della definizione, si indicano tutte le operazioni ammesse per ottenere via via, attraverso applicazioni iterate, altre parole desiderate; nel terzo, la _conclusione_ [C] della definizione, si precisa che le parole desiderate sono soltanto quelle che si possono ottenere in conformità alla 'base' e al 'passo'. Questa procedura definitoria è in realtà vastissima e ammette numerose varianti». Passando dal linguaggio alla costruzione di una ontologia, cioè di un Mondo, era proprio una procedura di questo genere che cercavo di illustrare tempo fa in questo articolo: http://snipurl.com/2ekhv -- Saluti. D.