Subject: Per coloro che pensano di credere. Date: Sat, 7 Jun 2008 17:52:51 +0200 From: "Raffaele Benzi" Organization: TIN.IT (http://www.tin.it) Newsgroups: it.cultura.religioni Ogni tanto, nei momenti di miglior umore, io spero che coloro che pensano di credere in una religione qualsiasi, indifferentemente dalla religione stessa, abbiano la capacita' di discerner etra il credere ed il sapere. Poi leggo gli interventi , disperatamente stupidi ed ottusi della maggioranzadei partecipanti ( gli altri li ho simbolicamente eliminati , quindi non possono irritarmi con la loro perseverante ottusita'...) e mi viene voglia di capire da dove , da qaule abisso di insondabile stupidita', emergono certe affermazioni, determinate certezze, certe stranissime convinzioni. Allora, paragono cio' che leggo a cio' che so', e mi viene il voltastomaco. Quei fessi che confondono religioni e miti ancestrali, mi procurano una sorta di irritazione gastrica, tendente alla flatulenza, ma talvolta, mi viene voglia di spiegare loro come stanno le cose... Allora leggetevi questo, invece di guardare la televisione , questa sera, e cercate di capire quello che leggete, dopo professatevi credenti....Che poi ne discutiamo. Morfologia e funzione dei miti I miti cosmogonici ed i miti esemplari In principio, dicono i Polinesiani, c'erano soltanto le acque primordiali immerse nelle tenebre cosmiche. «Dall'immensità dello spazio», dove stava, Io, il dio supremo, manifestò il desiderio di uscire dalla sua quiete. Immediatamente apparve la luce. Quindi egli disse: «Che le Acque si separino, che si formino i Cieli, che la Terra divenga! » Fu così, grazie alle parole cosmogoniche di Io, che il mondo giunse all'esistenza. Rievocando questi «ancient and original sayings... the ancient and original cosmological wisdom (wananga), which caused growth from the void... ecc.», un Polinesiano dei nostri tempi, Hare Hongi, aggiunge con eloquente goffaggine: «Ora, amici miei, vi sono tre importantissime applicazioni di queste antiche formule, quali si ritrovano nei nostri riti sacri. La prima agisce nel rito della fecondazione di una matrice sterile; la seconda nell'illuminazione del corpo e dello spirito; la terza e ultima si riferisce al solenne argomento della morte, della guerra, del battesimo, dei racconti genealogici e ad altre materie altrettanto importanti, che riguardano particolarmente i sacerdoti. «Le parole mediante le quali lo modellò l'Universo - cioè con cui l'Universo fu partorito e indotto a generare un mondo di luce - queste medesime parole sono adoperate nel rito di fecondazione di una matrice sterile. Le parole con cui Io fece splendere la luce nelle tenebre si adoperano nei riti destinati a rallegrare un cuore cupo e afflitto, l'impotenza e la senilità; a spandere luce su cose e luoghi nascosti; a ispirare quelli che compongono canzoni; e anche nei rovesci della guerra, come pure in molte altre circostanze che spingono l'uomo alla disperazione. Per tutti i casi simili, questo rito, destinato a diffondere la luce e la gioia, riproduce le parole di cui lo si servi per vincere e dissipare le tenebre. Al terzo posto, viene il rito preparatorio che si riferisce alle formazioni successive avvenute nell'interno dell'universo e alla storia genealogica dell'uomo stesso». Il mito cosmogonico serve quindi ai Polinesiani da modello archetipale per tutte le «creazioni», su qualsiasi piano si svolgano. La funzione fondamentale del mito è quella di stabilire i modelli esemplari di tutti i riti e di tutte le azioni umane significative. Del resto innumerevoli etnologi l'hanno constatato. «Presso i Marind-anim (Nuova Guinea olandese) - scrive P. Wirz - il mito è anche il fondamento di tutte le grandi feste, nelle quali compaiono attori con la maschera che rappresentano i Dema; il mito è anche la base dei culti segreti». Abbiamo visto che, all'infuori degli atti strettamente religiosi, il mito serve da modello ad altre azioni umane significative: per esempio alla navigazione e alla pesca. Il lato interessante del mito cosmogoníco polinesiano è appunto la sua applicazione multipla a circostanze che, almeno in apparenza, non interessano in modo immediato la « vita religiosa » in sé: l'atto della procreazione, consolare i disperati, i vecchi e gli ammalati, ispirare i bardi e i guerrieri ecc. La cosmogonia dunque offre il modello ogni volta che si deve fare qualche cosa, spesso qualche cosa di «animato», di «vivo» (nell'ordine biologico, psicologico o spirituale), come si è visto nei casi citati, ma anche quando si deve fare una cosa apparentemente «inanimata»: una casa, una barca, uno Stato ecc.: teniamo presente il modello cosmogonico nella costruzione di case, palazzi, città . Questi modelli miticí non si trovano soltanto nelle tradizioni « primitive »: la Brhadaranyka Upanisad, trattato metafisíco indiano, ci ha trasmesso il rituale della procreazione di un figlio maschio. Qui assistiamo alla trasfigurazione ierogamica dell'atto generativo; la coppia umana è identificata con la coppia cosmica; il marito dice: «Io sono il Cielo, tu sei la Terra». La concezione diventa una costruzione di proporzioni cosmíche e mobilita un intero gruppo di dèi. « Che Visnu prepari la matrice; che Tvastar modelli le forme; che Prajàpati versi; che Dhátar deponga in te il germe». La ierogamia Cíelo-Terra o Sole-Luna è spesso concepita in termini così precisi come «ut maritus supra feminam in coitíone iacet, sic coelum supra terram». Sarebbe un errore vedere in questa concezione della ierogamia un attributo esclusivo della "mentalità primitiva": lo stesso antropomorfismo si ritrova perfino nel più elaborato simbolismo alchemico circa l'unione del Sole e della Luna,' e in altri casi di coniunctio fra principi cosmologici o spirítuali. In breve, la ierogamia conserva la sua struttura cosmologica indipendentemente dagli svariati contesti in cui è collocata, e per antropomorfizzate che siano le formule che la esprimono. Anche se non si riferisce a una ierogamia, il mito cosmogonico, oltre alla sua importante funzione di modello e di giustificazione di tutte le azioni umane, è anche l'archetipo di un complesso di miti e di azioni rituali. Ogni idea di « rinnovamento », di «ricominciamento», di «restaurazione», per quanto si suppongano diversi i piani su cui si manifesta, è riducibile alla nozione di «nascita», e questa, a sua volta, alla nozione di « creazione cosmica». Abbiamo già trovato tali assimilazioni studiando i rituali e il simbolismo della ricomparsa della vegetazione; ogni ritorno della primavera riattualizza la cosmogonia; ogni segno della risurrezione della vegetazione equivale a manifestazione plenaria dell'Universo e per questo, come abbiamo visto il segno - un ramo, un fiore, un animale - è portato in processione di casa in casa e mostrato a tutti: come prova che «è venuta la primavera», non necessariamente la primavera «naturale », fenomeno cosmico, ma la risurrezione della vita. Le scene rituali in occasione dell'Anno Nuovo o dell'arrivo della primavera (duello fra Primavera e Inverno, espulsione della Morte, esecuzione dell'Inverno o della Morte ecc.;) sono altrettante versioni frammentarie e «specialízzate» di un mito unico, sorto dal mito cosmogonico. Ogni anno il mondo viene rifatto. Avviene, ad esempio in Mesopotamia, che la cosmogonia sia ripetuta in modo esplicito (recitazione del «Poema della Creazione »). Ma anche quando non è detto che si tratti di imitare la Creazione, le vestigia della cosmogonia traspaiono (estinzione e riaccensione dei fuochi, visite ai morti, combattimenti fra due campi avversi, iniziazíoni, nozze, orgia ecc.). Indubbiamente tutti questi rituali dell'Anno Nuovo o della Primavera non sono espressamente legati a un « mito »; talvolta sono integrati in miti laterali, nei quali l'accento non cade sulla funzione cosmogonica. Tuttavia, presi nel loro insieme, tutti gli atti sacri e tutti i «segni » attualizzati in occasione dell'Anno Nuovo o dell'inizio della Primavera - siano di essenza simbolica o rituale, mitica o leggendaria - rivelano una struttura comune: manifestano, con diseguale rilievo, il dramma della Creazione. In questo senso tutti partecipano al mito cosmogonico, quantunque in vari casi sì tratti non di « miti » propriamente detti, ma di rituali o di «segni». Così il «segno» che annuncia la primavera si può considerare un mito críptico o concentrato, in quanto l'ostensione del «segno » equivale a proclamare la creazione. Come il mito propriamente detto riferisce verbalmente un avvenimento esemplare (in questo caso la cosmogonia), così il «segno» (in questo caso il ramo verde o l'animale) evoca l'avvenimento con la semplice ostensione. Citeremo fra breve esempi che lumeggeranno più nettamente le relazioni fra mito propriamente detto e queste altre categorie di fatti magico-religíosi che si possono chiamare miti «criptici» o «concentrati». L'uovo cosmico Un mito cosmogonico dell'Arcipelago della Società mostra Ta'aroa, «l'antenato di tutti gli dèí», creatore dell'Universo, che sta «nel suo guscio in mezzo alle tenebre, dall'eternità. Il suo guscio era simile a un uovo rotolante nello spazio illimitato ». Il Motivo dell'uovo cosmogonico, attestato in Polinesia è comune all'India antica,' all'Indonesia, all'Iran, alla Grecia," alla Fenícia, alla Lettonia, all'Estonia, alla Finlandia, ai Pangwe dell'Africa occidentale, all'America centrale e alla Costa occidentale dell'America del Sud." Il centro di diffusione di questo mito deve probabilmente ricercarsi nell'India o in Indonesia. Hanno per noi particolare importanza i paralleli miticí o rituali dell'uovo cosmogonico; in Oceania, ad esempio, si crede che l'uomo sia nato da un uovo;" in altri termini, qui la cosmogonia è il modello dell'antropogonia, la creazione dell'uomo imita e ripete quella del Cosmo. D'altra parte, in moltissimi luoghi, l'uovo sta insieme ai simboli e agli emblemi del rinnovamento della natura e della vegetazione; i cosiddetti alberi dell'Anno Nuovo, il «Maggio», l'albero della festa di San Giovanni ecc., sono guarniti con uova e con gusci d'uovo. Ora sappiamo che tutti questi emblemi della vegetazione e dell'Anno Nuovo riassumono in qualche modo il mito della creazione periodica. Unito all'«Albero», simbolo della Natura e dell'instancabile Rinnovamento, l'uovo conferma tutti questi prestigi cosmogonici. Onde la parte notevole che rappresenta, in Oriente, nelle scene dell'Anno Nuovo. In Persia, ad esempio, uova colorate sono il regalo specifico del Capodanno, che ha conservato fino a oggi il nome di «Festa delle Uova Rosse».` E le uova rosse distribuite per Pasqua nei paesi balcanici si riferiscono probabilmente a un sistema rituale che ha lo scopo di commemorare l'inizio della primavera. In tutti i casi precedenti e in quelli che vedremo, la virtù rituale dell'uovo non si spiega con una valorizzazione empirico-razionalistica dell'uovo come germe; si giustifica invece col simbolo che l'uovo incarna, riferibíle non tanto alla nascita come alla rinascita, ripetuta secondo il modello cosmogonico. Se fosse diversamente, non si capirebbe la parte importante che hanno le uova nella celebrazione dell'Anno Nuovo e delle feste dei Morti. Sono note le relazioni fra culto dei morti e inizio dell'anno; a Capodanno, quando il mondo è ricreato, i morti si sentono attratti verso i vivi, e fino a un certo punto possono sperare di tornare in vita. Si prenda uno qualsiasi di tali complessi mitico- rituali, la sua idea fondamentale non è la «nascita», è invece la ripetizione della nascita esemplare del Cosmo, l'imitazione della cosmogonia. Nella festa indù della vegetazione, Holi, che è insieme festa dei morti, usa in certe regioni accendere fuochi e gettarvi due figurine umane, maschio e femmina, che rappresentano Kámadeva e Rati; insieme alla prima figurína, si gettano nel fuoco un pollo vivo e un uovo." In questa forma, la festa simboleggia la morte e la risurrezione di Kámadeva e di Rati: l'uovo conferma e promuove la risurrezione che, ripetiamo, non è nascita, ma «ritorno», «ripetizione». Un simbolismo di questo genere compare già in certe società preistoriche e protostoriche. In Russia e in Svezia, si sono trovate uova di creta in molti sepolcri? Nel rituale osirico, la modellazione di un uovo con svariati ingredienti (polvere di diamante, farina di fichi, aromi ecc.) ha una funzione su cui siamo ancora scarsamente documentati." Le statue di Dioniso trovate nelle tombe beote hanno tutte un uovo in mano, segno del ritorno alla vita. Questo spiega il divieto orfico di mangiare uova,` dato che l'orfismo ricerca anzitutto l'uscita dal ciclo delle infinite reincarnazioni, in altre parole l'abolizione del ritorno periodico all'esistenza. Ricorderemo, per finire, qualche altro uso rituale dell'uovo. Anzitutto la parte che ha nei rituali agricoli, durata fino a oggi. Per assicurare la crescita del grano, il contadino finlandese deve conservare un uovo in tasca finché dura la semina, oppure deve posare un uovo nel solco Gli Estoni mangiano uova nel periodo dell'aratura «per ottenere potenza», e gli Svedesi gettano uova nei campi arati. Seminando il lino, i Tedeschi vi aggiungono talvolta uova, o posano un uovo nel campo, o mangiano uova al tempo della semina. Sempre in Germania, si nota l'usanza di sotterrare nei campi arati non ancora seminati delle uova di Pasqua benedette in chiesa." I Ceremissi e i Votyak gettano per aria uova prima di metter mano alla semina, oppure sotterrano un uovo nel campo arato, come offerta alla Terra-Madre." L'uovo è contemporaneamente un'offerta alla divinità ctonia e un'offerta comune nel culto dei morti Ma quale che sia il complesso rituale a cui si unisce, l'uovo non perde mai il suo senso principale: assicurare la ripetizione dell'atto della creazione che diede origine, in illo tempore, alle forme viventi. Quando si coglie una pianta, si posa un uovo al suo posto per garantire che spunti in compenso un'erba simile. In ciascuno di questi esempi, l'uovo garantisce la possibilità di ripetere l'atto primordiale, cioè la Creazione. Possiamo dunque parlare, in un certo senso, di varianti rituali del mito cosmogonico. Poiché bisogna abituarsi a dissociare la nozione di mito da quella di « parola », di « favola » (cfr. il senso omerico di mythos, « parola », «discorso»), e avvicinarla invece alle nozioni di «azione sacra», di « gesto significativo », di « avvenimento primordiale ». E' mitico non soltanto tutto quel che si racconta circa eventi svolti e personaggi vissuti in illo tempore, ma anche tutto quel che si trova in relazione diretta o indiretta con tali eventi e con personaggi primordiali (tenendo conto, naturalmente, delle precisazioni e dei correttivi addotti nelle varie parti di questo capitolo). In quanto solidale con le scene dell'Anno Nuovo e con la rinascita della Primavera, l'uovo rappresenta un'epifania della creazione e - nel quadro non dell'esperienza empirico-razionalistica, ma dell'esperienza ierofanica - rappresenta un riassunto della cosmogonia. Da un certo punto di vista, ogni mito è « cosmogonico », perché ogni mito enuncia la comparsa di una nuova « situazione » cosmica o di un avvenimento primordiale, che diventano così, per il semplice fatto di manifestarsi, paradigmi per tutto il corso del tempo futuro. Ma sarà prudente non rinchiudersi nelle formule e non ridurre tutti i tipi di miti a un prototipo unico, come avvenne qualche generazione fa, quando eruditi di valore riconducevano tutta la mitologia a epifanie del Sole o della Luna. Secondo noi, studiare la struttura dei miti e la loro funzione nell'esperienza spirituale dell'umanità arcaica è più istruttivo che classificarli e ricercare le loro possibili «origini». Che cosa rivelano i miti Il mito, quale che sia la sua natura, è sempre un precedente e un esempio, non soltanto rispetto alle azioni (« sacre » o « profane ») dell'uomo, ma anche rispetto alla propria condizione; meglio: il mito è un precedente per i modi del reale in generale. «Dobbiamo fare quel che gli dèi hanno fatto in principio»;` «così fecero gli dèi, così fanno gli uomini». Affermazioni di questo genere traducono esattamente la condotta dell'uomo arcaico, ma non si può dire che esauriscano il contenuto e la funzione dei miti: infatti tutta una serie di miti, mentre riferisce che cosa hanno fatto in illo tempore gli dèi o gli esseri mitici, rivela una struttura del reale inaccessibile all'apprendimento empirico-razionalistico. Citiamo, fra gli altri, i miti che si potrebbero chiamare, brevemente, miti della polarità (della bi-unità) e della reintegrazione, ai quali abbiamo dedicato uno studio particolare. Un gruppo importante di tradizioni mitiche parla di «fraternità» fra dèi e demoni (ad esempio, i deva e gli asura), di « amicizia » o di « consanguineità » fra eroi e i loro avversari (tipo Indra e Namuci), fra santi e diavolesse (tipo san Sisinio e sua sorella la demonia Uerzelia) ecc. Il mito che dà un «padre » comune a due personaggi rappresentanti i principi polari sopravvive perfino nelle tradizioni religiose, che pongono l'accento sul dualismo, come avviene nella teologia iranica. Il zervanismo considera Ormuzd e Ahriman come fratelli, nati ambedue da Zervan, e tracce di un concetto simile si possono rilevare perfino nell'Avesta." Lo stesso mito è passato anche nelle tradizioni popolari: molte credenze e proverbi rumeni affermano che Dio e Satana erano fratelli." Un'altra categoria di miti e di leggende illustra non solo la filiazione comune di antagonisti, ma anche la loro paradossale convertibilità. Il Sole, prototipo degli dèi, riceve talvolta il nome di « Serpente » e Agni, il dio del fuoco, è contemporaneamente un « sacerdote Asura » cioè, essenzialmente, un « demone »; talvolta è descritto" come «senza piedi né testa, che nasconde le sue due teste », precisamente come un serpente attorcigliato. L'Aitareya Brahmana afferma che Ahi Budhnyia è in modo invisibile (paroksena) quel che Agni è in modo visibile (pratyaksa); in altri termini, il Serpente altro non è che una virtualità del Fuoco, mentre le Tenebre sono la Luce allo stato latente. Nella Vajasaneyi Samhita , Ahi Budhnyia è identificato col Sole. Il soma, bevanda che conferisce l'immortalità, è «divina», «solare», per eccellenza, il che non toglie che si legga nel Rgveda (IX, 86, 44) che Soma «come Agni, esce dalla sua vecchia pelle», espressione che conferisce alla ambrosia una modalità ofidica. Varuna, dio celeste e archetipo del « Sovrano Universale » è contemporaneamente il dio dell'Oceano, sede dei serpenti, come dice il Mahabharata ; è «il re dei serpenti» (nagaraja) , l 'Atharva Veda (XII, 3, 57) lo chiama perfino «vipera». Nella prospettiva dell'esperienza logica, tutti questi attributi ofidici non dovrebbero adattarsi a una divinità uranica come Varuna. Ma il mito scopre una regione ontologica inaccessibile all'esperienza logica superficiale. Il mito di Varuna rivela la bi-unità divina, la coincidenza dei contrari, la totalizzazione degli attributi in seno alla divinità. Il mito esprime plasticamente e drammaticamente quel che la metafisica e la teologia definiscono dialetticamente. Eraclito sa che «Dio è il giorno e la notte, l'inverno e l'estate, la guerra e la pace, la sazietà e la fame; tutti gli opposti sono in lui » (framm. 64). Una formulazione analoga ci offre il testo indiano che insegna che la Dea «è Sri ("Splendore") nella casa di chi fa il bene, ma è Alaksmí (il contrario di Lakasmì, dea della fortuna e della prosperità) nella casa dei cattivi Questo testo, a sua volta, dichiara soltanto, a modo suo, il fatto che le Grandi Dee indiane (Kàlí ecc.) come le Grandi Dee in generale, cumulano tanto gli attributi della mitezza che quelli del terrore. Sono insieme dee della fecondità e della distruzione, della nascita e della morte (spesso sono anche dee della guerra). Kálì, ad esempio, è chiamata «la soave e benevola », nondimeno la sua mitologia e la sua iconografia sono terrificanti (Kál-l è coperta di sangue, porta una collana di crani umani, tiene un calice fatto con un cranio ecc.) e il suo culto è il più cruento dell'Asia. In India, accanto a una «forma mite», ogni divinità ha una «forma terribile» (krodhamúrti). Sotto questo punto di vista, Shiva puo' considerarsi l'archetipo di una numerosa serie di dèi e di dee, in quanto crea e distrugge ritmicamente universo intero. Coincidentia oppositorum- modello mitico Tutti questi miti offrono una duplice rivelazione: 1) manifestano, da una parte, la polarità di due personalità diverse, uscite da un solo e unico principio e destinate, in parecchie versioni, a riconcifiarsí in un illud tempus escatologico; 2) dall'altra, la coincidentia oppositorum nella struttura profonda della divinità, che si dimostra successivamente o contemporaneamente benevola e terribile, creatrice e distruttrice, solare e ofidica (= manifesta e virtuale) ecc. In questo senso è giusto dire che il mito rivela, più profondamente di quanto potrebbe rivelarlo la stessa esperienza razionalistica, la struttura stessa della divinità, che si pone al disopra degli attributi e riunisce tutti gli opposti. Che una simile esperienza mitica non sia aberrante, ce lo dimostra il fatto che essa si integra pressoché universalmente nell'esperienza religiosa dell'umanità, anche in una tradizione rigorosa come quella giudeo-cristiana. jahvè è insieme buono e collerico; il dio dei mistici e dei teologi cristiani è tenfficante e mite, e da questa coincidentia oppositorum sono partite le più audaci speculazioni di uno Pseudo Dionigi, di Meister Eckhardt o di Nícola da Cusa. La coincidentia oppositorum è uno dei modi più arcaici con cui si espresse il paradosso della realtà divina. Torneremo su questa formula a proposito delle « forme » divine, cioè della struttura sul genetis che rivela qualsiasi « personalità » divina, tenendo ben presente che la personalità divina non potrebbe in nessun caso considerarsi semplice proiezione della personalità umana. Tuttavia, benché tale concezione nella quale tutti gli opposti coincidono (o meglio sono trascesi) sia appunto una definizione minima della divinità e dimostri fino a che punto la divinità sia «assolutamente cosa diversa» dall'uomo, la coincidentia oppositorum è diventata nondimeno il modello esemplare di certe categorie d'uomini religiosi, o di certe modalità dell'esperienza religiosa. La coincidentia oppositorum o la trascendenza di tutti gli attributi, sono realizzabili per l'uomo in ogni sorta di modi. Così l'orgia la presenta al livello più elementare della vita religiosa: non simboleggia forse la regressione nell'amorfo e nell'indistinto, riacquistando uno stato nel quale tutti gli attributi si aboliscono e gli opposti coincidono? Ma ecco, d'altra parte, che lo stesso insegnamento si decifra nell'ideale stesso del saggio e dell'asceta orientale; egli, con le sue tecniche e i suoi metodi contemplativi, mira a trascendere radicalmente tutte le qualità, quale che sia la loro natura. L'asceta, il saggio, il «mistico» indiano o cinese si sforza di sopprimere dalla sua esperienza e dalla sua coscienza gli « estremi » d'ogni specie, di raggiungere cioè uno stato di neutralità e di indifferenza perfette, di rendersi impermeabile al piacere e al dolore ecc., di diventare automa. Questo superamento degli estremi mediante l'ascesi e la contemplazione termina anch'esso nella «coincidenza degli opposti»; la coscienza di un tal uomo non conosce più conflitti, e le coppie di contrari - piacere e dolore, desiderio e repulsione, freddo e caldo, piacevole e sgradevole ecc. - sono scomparse dalla sua esperienza; contemporaneamente una «totalizzazione» avviene in lui, corrispondente alla «totalizzazione» degli estremi in seno alla divinità. D'altronde, come abbiamo già visto ( nella prospettiva orientale, la perfezione non è concepibile senza un'effettiva totalizzazione dei contrari. Il neofita comincia tentando di « cosmicizzare » tutta la sua esperienza, assimilandola ai ritmi che dominano l'Universo (Sole e Luna), ma, una volta ottenuta questa «cosmicizzazione », volge tutto il suo sforzo a unificare il « Sole » e la « Luna », cioè ad assumere il Cosmo tutto intero; rifà in sé e per proprio conto l'unità primordiale precedente la Creazione; unità che non significa il caos della precreazione, ma l'essere indifferenziato nel quale tutte le forme sono riassorbite. Il mito dell'androginia divina Un ulteriore esempio illustrerà ancor più chiaramente lo sforzo fatto dall'uomo religioso per imitare l'archetipo divino rivelato dai miti. Poiché tutti gli attributi coesistono nella divinità, è da supporre che coincidano in essa, sotto forma più o meno manifesta, anche i due sessi. L'androginia divina altro non è che una formula arcaica della bi-unità divina; il pensiero mitico e religioso, ancor prima di esprimere il concetto della biunità divina in termini metafisici (esse-non esse) o teologici (manifestato-non manifestato), cominciò con l'esprimerla in termini biologici (bisessualità). Abbiamo già potuto constatare più volte che l'ontologia arcaica si esprime in termini biologici. Ma non dobbiamo lasciarci ingannare dall'aspetto esteriore di questi linguaggi, prendendo la terminologia mitica nel senso concreto, profano («Moderno») delle parole. La Donna, in un testo mitico o rituale, non è mai una « donna »: rimanda al principio cosmologico che incorpora. Perciò l'androginia divina, che si trova in tanti miti e credenze, ha un valore teorico, metafisico. La vera intenzione della formula è quella di esprimere - in termini biologici - la coesistenza dei contrari, dei principi cosmologici (cioè maschio e femmina) in seno alla divinità. Non è qui il caso di riprendere un problema già trattato nel Mito reintegrativo. Limitiamoci a ricordare che le divinità della fertilità cosmica sono in massima parte androgine, oppure sono femmine un anno e maschi l'anno dopo (cfr. ad esempio lo « Spirito della Foresta » degli Estoni). La maggioranza degli dèi della vegetazione (tipo Atti, Adone, Dioniso) e delle Grandi Madri (tipo Cíbele) sono bisessuati. In una religione arcaica come l'australiana, il dio primordiale è androgino, e tale è anche nelle religioni più evolute, per esempio in India (talvolta perfino Dyaus; Purusa, il macrantropo cosmico del Rgveda, X, go ecc.). La più importante coppia divina del pantheon indiano, Shiva- kali è talvolta rappresentata in forma di un essere unico (ardbanarísvara). E Nconografia tantrica è piena di immagini che ci mostrano il dio Shiva strettamente abbracciato con sakti la propria «potenza», rappresentata come divinità femminile (Kali). D'altronde, tutta la mistica erotica indiana ha come fine specifico la perfezione dell'uomo mediante la sua identificazione con una «coppia divina », cioè attraverso l'androginia. La bisessualità divina è fenomeno molto diffuso nelle religioni" e - questo tratto merita di essere rilevato - sono androgine perfino le divinità maschili e femminili per eccellenza. Quale che sia la forma in cui si manifesta, la divinità è la realtà ultima, la potenza assoluta, e questa realtà, questo potere, rifiutano di lasciarsi limitare da qualsiasi specie di attributi e di qualità (buono, cattivo, maschio, femmina ecc.). Molti fra i più antichi dèi egiziani erano bisessuati. Presso i Greci, l'androginia continuò ad ammettersi perfino negli ultimi secoli dell'antichità." Quasi tutti gli dèi ímportanti della mitologia scandinava conservano tracce di androginia: Odíno, Loki, Tuisto, Nerthus ecc. Il dio iranico del tempo illimitato, Zervan, che gli storici greci traducono giustamente Kronos, è anch'egli androgino,` e Zervan mette al mondo, come abbiamo ricordato, i due gemelli Ormuzd e Ahriman, il dio del « Bene » e il dio del « Male », il dio della « Luce » e quello delle « Tenebre ». Perfino i Cinesi riconoscevano una divinità suprema androgina, che era appunto il dio dell'oscurità e della luce: il simbolo è coerente, dato che luce e tenebre sono soltanto aspetti successivi di una realtà unica; considerandoli isolatamente, questi aspetti parrebbero separati, opposti, ma agli occhi del saggio si manifestano più che « gemelli » (come Ormuzd e Ahriman): formano una sola e unica essenza, ora come manifestata ora come non manifestata. Le «coppie divine » (tipo Bél-Bélit ecc.) sono molto spesso invenzioni tardive o formulazioni imperfette dell'androginia primordiale, caratteristica di ogni divinità. Così, presso i Semiti, la dea Tanit era soprannominata figlia di Ba'al e Astarte nome di Ba'al. Sono innumerevoli i casi in cui la divinità riceveva il nome di "padre e madre" dalla sua stessa sostanza, e senza altro intervento. nascono i mondi, gli esseri, gli uomini. L'androginia divina porta come conseguenza logica la monogenía o l'autogenia: moltissimi miti raccontano come la divinità trasse da se stessa la propria esistenza, modo semplice e drammatico di affermare che la divinità basta completamente a se stessa. Lo stesso mito ricomparirà, basato questa volta su una metafisica raffinata, nelle speculazioni neoplatoniche e gnostiche, alla fine dell'antichità. Il mito dell'androginia umana Al mito dell'androginia divina - che rivela ottimamente, fra le altre formule della coincidentia oppositorum, il paradosso dell'esistenza divina - corrisponde tutta una serie di miti e di rituali relativi all'androginia umana. Qui il mito divino forma fl paradigma dell'esperienza religiosa dell'uomo. Moltissime tradizioni rappresentano P« uomo primordiale », l'antenato, come un androgino (tipo Tuisto), e versioni mitiche più tarde parlano delle «coppie primordiali » (tipo Yama - cioè «gemello» - e sua sorella Yami, o la coppia iraniana YimaYimagh, Masyagh-Masyánagh). Molti commenti rabbinici lasciano capire che anche Adamo fu talvolta concepito androgíno. La «nascíta» di Eva dunque sarebbe stata, in ultima analisi, soltanto la scissione dell'androgino primordiale in due esseri, maschio e femmina. «Adamo ed Eva erano fatti schiena contro schiena, attaccati per le spalle; allora Dio li separo' con un colpo di accetta, o tagliandoli in due. Altri pensano altrimenti: il primo uomo (Adamo) era uomo dal lato destro e donna dal sinistro ma Dio lo spacco' in due metà». La bisessualità dell'uomo primitivo è tradizione ancora molto viva nelle cosiddette società «prìmitive» (ad esempio in Australia, in Oceania; cfr. i lavori di Winthuis), e si è perfino conservata, o riformata, in un'antropologia evoluta come quella di Platone` e degli gnostici. Che nell'androginia dell'uomo primordiale si debba vedere una delle espressioni della perfezione e della totalizzazione, è dimostrato ancora una volta dal fatto che l'androgino originale era spesso concepito sferico (Australia; Platone): ora, è ben noto che la sfera ha simboleggiato, fin dal livello delle civiltà arcaiche (ad esempio in Cina), la perfezione e la totalità. Il mito dell'androgino sferico si congiunge anche a quello dell'uovo cosmogonico. Per esempio, secondo la tradizione taoista, in origine i «soffi» - che incarnavano, fra l'altro, i due sessi - erano confusi e formavano un uovo, il Grande-Uno; da esso si staccarono in seguito Cielo e Terra. Questo schema cosmologico servi evidentemente da modello alle tecníche di fisiologia mistica dei taoisti.Il mito del dio androgino e dell'«antenato» («l'uomo primordiale») bísessuale è paradígmatico rispetto a tutto un insieme di cerimonie collettive che tendevano a riattualizzare periodicamente quella condizione iniziale, considerata il modo perfetto dell'umanità. Oltre alle operazioni di circoncisione e di subincisione che mirano a trasformare ritualmente il giovane Australiano o la giovane Australiana in un androgino (si vedano gli studi di Wínthuis, Róheim ecc.), vanno ricordate tutte le cerimonie dello «scambio dei vestiti », le quali altro non sono che versioni attenuate dell'androginía.I' In India, in Persia e in altre parti dell'Asia, il rituale dello «scambio dei vestiti» ha una parte capitale nelle feste agricole. In certe regioni dell'India, gli uomini portano perfino un petto artificiale durante la festa della dea della vegetazione, che naturalmente è androgina anch'essa. In breve, l'uomo sente periodicamente il bisogno di riacquistare, sia pure per un istante, la condizione dell'umanità perfetta, nella quale i sessi coesistevano, come coesistono, accanto a tutte le altre qualità e a tutti gli altri attributi, nella divinità. L'uomo vestito da donna non diventava per questo donna, come potrebbe sembrare a un osservatore superficiale, ma conseguiva per un momento l'unità dei sessi, stato che gli facilitava la comprensione totale del Cosmo. Il bisogno che l'uomo sentiva di annullare periodicamente una condizione differenziata e solidamente stabilita, per ritrovare la «totalizzazione» primordiale, si spiega con lo stesso bisogno dell'«orgia» periodica, nella quale tutte le forme si disintegrano per giungere al recupero del « Tutto-Uno » anteriore alla Creazione. Qui, ancora una volta, abbiamo decifrato la necessità di abolire il passato, di sopprimere la «storia » e di cominciare una vita nuova mediante una nuova Creazione. Morfologicamente il rituale del « cambiamento di vestiti » è analogo all'« orgia » cerimoniale; del resto avveniva spesso che i «travestimentí» dessero occasione a vere e proprie orge. Tuttavia le variazioni di questi rituali, anche le più aberranti, non riescono ad annullarne il significato essenziale, cioè la reintegrazione nella condizione paradisiaca dell'«uomo primordiale». E tutti questi rituali hanno per modello esemplare i miti dell'androginia divina. Se volessimo illustrare con esempi più abbondanti la funzione paradigmatica dei miti, sarebbe sufficiente riprendere in esame buona parte della documentazione raccolta nei capitoli precedenti. Come si è visto, non sempre si tratta di un paradigma destinato ai rituali; è destinato anche ad altre esperienze religiose e metafisiche, come la «sapienza», le tecniche di fisiologia mistica ecc. Si potrebbe addirittura dire che i miti fondamentali dipendono da archetipi che l'uomo si sforza di realizzare, spesso all'infuori della vita religiosa propriamente detta. Basti un esempio: l'androginia si ottiene non soltanto per mezzo di operazioni chirurgiche che accompagnano le cerimonie australiane di iniziazione, mediante un'«orgia» rituale, col «cambiamento dei vestiti» ecc., ma anche chiamata anche « Androgino ermetico »), mediante il matrimonio (ad esempio nella Kabbala) e perfino (nefl'ideología romantica tedesca) per mezzo dell'atto sessuale." In fondo, si può perfino parlare di un' « androginizzazione» dell'uomo per amore, dato che in amore ciascun sesso acquisisce, conquista le «qualità» del sesso opposto (la grazia, la remissività, la dedizione raggiunte dall'uomo innamorato ecc.). Miti di rinnovamento, di costruzione, d'iniziazione ecc. Il mito non può, in nessun caso, venir considerato semplice proiezione fantastica di un avvenimento «naturale». Sul piano dell'esperienza magíco-religiosa (abbiamo già insistito su questo punto), la Natura non è mai «naturale». Quel che sembra, alla mentalità empirico-razionalisfica, situazione o processo naturale si rivela, nell'esperienza magico-religiosa, come cratofania o ierofania. Ed è unicamente attraverso queste cratofanie o ierofanie che la « Natura » diventa un oggetto magico-religioso e, come tale, interessa la fenomenologia religiosa e la storia delle religioni. I miti degli «dèi della vegetazione » sono, sotto questo punto di vista, un esempio eccellente di trasmutazione e di valorizzazione di un avvenimento cosmico « naturale ». Non furono la scomparsa e la ricomparsa periodiche della vegetazione che crearono le figure e i miti di questi dèi (tipo Tammuz, Attis, Osiride ecc.); non fu, in ogni modo, la semplice osservazione empirico-razionalistica di questo fenomeno « naturale ». L'apparizione e la scomparsa della vegetazione furono sempre sentite, nella prospettiva dell'esperienza magico-religiosa, come un segno della creazione periodica del Cosmo. La passione, morte e risurrezione di Tammuz, quali si rivelano nel mito e in ciò che rivelano, sono tanto lontane dalfenomeno naturale dell'inverno e della primavera, quanto Madame Bovary o Anna Karenina sono lontani da un adulterio. E ciò in quanto il mito, appunto come l'opera d'arte, è un atto di creazione autonoma dello spirito: la rivelazione avviene per mezzo di questo atto creativo , non mediante la materia o gli avvenimenti che la rivelazione utilizza. In breve, il mito di Tammuz rivela il dramma della morte e della risurrezíone della vegetazione, non viceversa. Infatti il mito di Tammuz, come il mito degli dèi analoghi, svela una modalità cosmica che supera notevolmente la sfera della vita vegetale; scopre, da una parte, l'unità fondamentale vita-morte e, dall'altra, le speranze che l'uomo ha il diritto di trarre da quest'unità fondamentale circa la propria vita dopo la morte. Da questo punto di vista, il mito della passione, morte e risurrezione degli « dèi della vegetazione » si può considerare paradigmatico rispetto alla condizione umana: ha rivelato la «Natura» meglio e più intimamente di quanto avrebbero potuto fare l'osservazione e l'esperienza empirico-razionalistiche, e appunto per mantenere e rinnovare questa rivelazione il mito deve essere celebrato e ripetuto: l'apparizione e la scomparsa della vegetazione prese in sé, in quanto «fenomeni cosmici», non significano niente più di quel che sono: una comparsa e scomparsa periodica della vita vegetale. Soltanto il mito trasfigura questo avvenimento in categoria: sia perché la morte e la risurrezione degli dèi della vegetazione diventano gli archetipi di tutte le morti e di tutte le risurrezioni, quali che siano e su qualsiasi piano si manifestino, sia anche perché rivelano A destino della condizione umana meglio di quanto potrebbe rivelarlo ogni altro strumento empirico-razionalistico. Allo stesso modo, certi miti cosmogonici che narrano la creazione dell'Universo partendo dal corpo di un gigante primordiale, o addirittura dal corpo e dal sangue dello stesso dio creatore, sono diventati il modello non soltanto dei «riti di costruzione» (che implicano, come è noto, il sacrificio di un essere vivente quando si costruisce una casa, un ponte, un santuario), ma anche di ogni specie di «creazione », nel più ampio significato del termine. Il mito ha rivelato la condizione di tutte le «creazioni» che richiedono, per compiersi, una «animazione», cioè la comunicazione diretta della vita da parte di una creatura che già la possiede; rivela nello stesso tempo l'mpotenza dell'uomo a creare all'infuori della propria riproduzione, che del resto in moltissime società è attribuita a forze religiose estranee all'uomo (figli venuti da alberi, pietre, acque, «antenati» ecc.). Moltissimi miti e leggende descrivono le «difficoltà» incontrate da un semidio o da un eroe per penetrare in un « dominio vietato » - che simboleggia sempre un territorio trascendente -, il Cielo o l'Inferno. Si tratta di attraversare un ponte sottile come il filo di una lama, o una liana che oscilla sotto il passo; di passare fra due rocce che quasi si toccano; di entrare da una porta che rimane socchiusa appena un attimo; di penetrare in una regione circondata da monti, da acque, da un cerchio di fuoco e custodita da mostri, oppure da un'altra porta situata nel punto «ove si abbracciano Cielo e Terra», o dove si ricongiungono "le fini dell'Anno". Certe versioni di questo mito delle «prove», come le fatiche di Eracle, la spedizione degli Argonauti ecc., hanno conosciuto nell'antichità una brillante fortuna letteraria, continuamente sfruttate e rifuse da mítografi e poeti; furono poi a loro volta imitate nei cicli di leggende semi-storiche, come il ciclo di Alessandro Magno, il quale anche errò nel paese delle tenebre, cercando l'erba della vita, lottò con mostri ecc. Molti di questi miti rappresentavano indubbiamente l'archetipo dei riti di iníziazione. Ma i miti della «ricerca del paese trascendente » traducono anche una cosa diversa dalle scene iniziatiche, cioè la modalità « paradossale » del superamento di quella polarità inseparabile da qualsiasi mondo (da qualsiasi « condizione»). Il passaggio attraverso la «porta stretta», la «cruna dell'ago», le «rocce che si toccano » ecc. mette sempre in moto una coppia di contrari (tipo bene-male, notte-giorno, alto-basso ecc.)." In questo senso si ha il diritto di dire che i miti della «ricerca» e delle «prove iniziatiche» rivelano, in forma plastica e drammatica, l'atto stesso con cui lo spirito trascende un Cosmo condizionato, polare e frammentario, per ritrovare l'unità fondamentale anteriore alla Creazione. Il mito, come il simbolo, ha una «logica» sua propria, una coerenza intrinseca che gli permette di essere «vero » su diversi piani, per lontani che siano dal piano sul quale il mito si manifestò in origine. Abbiamo già detto in quanti modi e in quante svariate prospettive è «vero» - e quindi applicabile, utilizzabile - il mito cosmogonico. Ricordiamo, per dare ancora un altro esempio, il mito e la struttura di Varuna, dio celeste e sovrano, onnipotente e all'occorrenza «legatore» mediante la sua «potenza spirituale», la sua « magia ». Ma il suo aspetto cosmico è ancora più denso: non è soltanto, come abbiamo visto, un dio celeste, è anche dio lunare e acquatíco. Vi è stata in Varuna, e forse molto presto, una certa dominante «notturna» che Bergaigne, e recentemente Coomaraswamy, hanno posto in rilievo. Bergaigne segnalava" il commentatore del Táittiriya Samhita (1, 8, 16, 1), per il quale Varuna designa «colui che avvolge, come l'oscurità Questo lato «notturno» di Varuna non si lascia interpretare esclusivamente nel senso uranico di « Cielo notturno », ha anche un significato più ampio, autenticamente cosmologico e persino metafisico: la Notte e'anch'essa virtualità, germe, non-manifestazione, e fu appunto questa modalità notturna di Varuna che gli permise di diventare un dio delle acque," e che apri la strada alla sua assimilazione al «demone» Vrtra. Non è qui fl caso di affrontare fl problema « Vrtra-Varuna »; ricorderemo soltanto che fra le due entità vi sono parecchi tratti comuni. Anche se non teniamo conto della probabile parentela etimologica fra i due nomi," è importante rilevare che ambedue sono in relazione con le Acque, e in primo luogo con le «acque trattenute» («il grande Varuna ha nascosto il mare... »),11 e che Vrtra, come Varuna, è talvolta chiamato mayin «mago». In una certa prospettiva, queste diverse assimilazioni di Vrtra e di Varuna, come del resto tutte le altre modalità e funzioni di Varuna, si corrispondono e si giustificano l'una con l'altra. La Notte (il non-manifestato), le acque (il virtuale, i germi), la «trascendenza» e il « non agire» (caratteristiche degli dèi celesti e sovrani) hanno una solidarietà, insieme mitica e metafisica, da una parte con i «legatori» di ogni specie, dall'altra col Vrtra che ha « trattenuto », « fermato » o « incatenato » le Acque. Sul piano cosmico, anche Vrtra è un « legatore». Il mito di Vrtra è quindi multivalente, come tutti i grandi miti, e la sua interpretazione non si esaurisce in un unico signifícato. Si puo' perfino dire che una delle principali funzioni del mito è di fissare, di legalizzare i livelli del reale, che si dimostrano multipli ed eterogenei tanto per la coscienza immediata che per la ríflessione. Così, nel mito di Vrtra, accanto ad altri valori, si nota quello di un ritorno al non-manifestato, di una «fermata», di un «legame», che ostacola l'espansione delle « forme », cioè la Vita cosmica. Evidentemente non abbiamo il diritto di spingere troppo oltre il ravvicinamento fra Vrtra e Varuna. Ma la parentela strutturale è innegabile fra il « notturno », il « non agente », il « mago » Varuna, che lega i colpevoli a distanza, e il Vrtra che «incatena» le Acque. L'azione dell'uno, come quella dell'altro, ha l'effetto di fermare, la vita, di produrre la morte sul piano individuale, nel primo caso e sul piano cosmico, nell'altro. Mito-«storia esemplare» Ogni mito, indipendentemente dalla sua natura, enuncia un avvenimento che avvenne in illo tempore e per questo costituisce un precedente esemplare per tutte le azioni e «situazioni » che, in seguito, ripeteranno l'avvenimento. Ogni rituale, ogni azione che abbia un senso, eseguiti dagli uomini, ripetono un archetipo mitico ora abbiamo visto che la ripetizione ha per conseguenza l'abolizione del tempo profano e la proiezione dell'uomo in un tempo magico-religioso che non ha nulla a che vedere con la durata propriamente detta, ma costituisce l'« eterno presente » del tempo mitico. Il che significa che, congiuntamente ad altre esperienze magico-religiose, il mito reintegra l'uomo in un'epoca a-temporale che è, di fatto, un illud tempus, cioè un tempo aurorale, «paradisiaco », oltre la storia. Chi compie un rito qualsiasi, trascende il tempo e lo spazio profano; allo stesso modo, chi « imita » un modello mitico o soltanto ascolta ritualmente (partecipandovi) la recitazione di un mito, è sottratto al divenire profano e ritrova il Grande Tempo. Nella prospettiva dello spirito moderno, il mito (e con esso tutte le altre esperienze religiose) abolisce la « storia ». Ma bisogna notare che i miti, in genere, per il solo fatto di enunciare quel che avvenne in illo tempore, sono essi stessi una storia esemplare del gruppo umano che li ha conservati e del Cosmo di quel gruppo. Perfino il mito cosmogonico è anch'esso una storia, in quanto racconta tutto quel che avvenne ab origine. Evidentemente con questa riserva, che non si tratta di «storia » nel senso moderno della parola - di avvenimenti irreversibili e non ripetibili - ma di una storia esemplare che può ripetersi (periodicamente o no) e che trova il suo significato e il suo valore nella ripetizione stessa. La storia che è stata in origine deve ripetersi, perché ogni epifania primordiale è ricca, in altre parole non si lascia esaurire da una sola manifestazione. D'altra parte, i miti sono ricchi del loro contenuto, che è esemplare e, come tale, offre un senso, crea qualche cosa, annuncia qualche cosa ecc. La funzione di storia esemplare che hanno i miti è resa sensibile anche dal bisogno che l'uomo arcaico sente di mostrare le « prove » dell'avvenimento registrato nel mito. Prendiamo un tema mitico noto: essendo avvenuta la tal cosa, gli uomini diventarono mortali, oppure le foche perdettero le dita, oppure la luna si coprì di macchie ecc. Questo tema è perfettamente « dimostrabile », per la mentalità arcaica, dal fatto che l'uomo è realmente mortale, che le foche non hanno dita, che la luna ha realmente delle macchie. Il mito che rivela come l'isola Tonga sia stata pescata in fondo all'oceano, fornisce la prova della sua veridicità col fatto che si vede ancora la canna adoperata per pescarla e la roccia su cui si impigliò l'amo. Questo bisogno di dimostrare la veridicità del mito ci aiuta a decifrare il senso che avevano storia e «documenti storici» nella mentalità arcaica. Tradisce infatti l'importanza attribuita dall'uomo primitivo alle cose che sono realmente avvenute, agli avvenimenti successi in modo concreto intorno a lui; l'appetito del suo spirito per il «reale», per quel che «è» pienamente. Ma, contemporaneamente, la funzione esemplare attribuita a questi avvenimenti dell'illud tempus permette di indovinare l'interessamento dell'uomo arcaico per le realtà significative, creatrici, paradigmatiche. Interessamento che sopravvive ancora nei primi storici del mondo antico, per i quali il «passato» aveva un senso unicamente in quanto era un esempio da imitare, e formava quindi la summa pedagogica dell'umanità intera. Questa missione di « storia esemplare» assegnata al mito deve essere accostata, per intenderla bene, alla tendenza dell'uomo arcaico a realizzare concretamente un archetipo ideale, a vivere « sperimentalmente » l'eternità fin da questa vita terrena. Aspirazione che abbiamo posto in chiaro analizzando il tempo sacro . . Degradazione dei miti Il mito può degradarsi in leggenda epica, ballata o romanzo, oppure può sopravvivere nella forma sminuita di « superstizioni », abitudini, nostalgie ecc.; non per questo perde la sua struttura o la sua portata. Si ricorderà che il mito dell'Albero Cosmico si conserva nelle leggende e nei riti della raccolta dei semplici. Le «prove», le sofferenze, le peregrinazioni del candidato all'iniziazione sopravvivono nel racconto delle sofferenze e degli ostacoli superati, prima di raggiungere il suo fine, dall'eroe epico o drammatico (Ulisse, Enea, Parsifal, certi personaggi di Shakespeare, Faust ecc.). Tutte queste «prove», queste «sofferenze», materia di epopea, dramma e romanzo, si possono facilmente ricondurre alle sofferenze e agli ostacoli rituali del «cammino verso il centro». Indubbiamente, il «cammino» non si svolge sullo stesso piano iniziatico, ma, tipologicamente parlando, gli errori di Ulisse o la ricerca del Santo Graal si ritrovano perfino nei grandi romanzi del secolo scorso, per non parlare della letteratura popolare, di ben nota origine arcaica. Se oggi il romanzo poliziesco narra la lotta fra delinquente e investigatore (il « genio buono » e quello «cattivo», il Drago e il Principe Azzurro delle favole ecc.), mentre qualche generazione fa si presentavano con compiacenza il principe orfano o la pura fanciulla alle prese con lo « scellerato », mentre 150 anni fa erano in voga i romanzi «neri» e «frenetici», con i loro «monaci tenebrosi», gli «italiani», gli «scellerati», le «fanciulle rapite », i « protettori mascherati » ecc., queste sfumature dell'affabulazione si spiegano con il colore e l'orientamento variabile della sensibilità popolare, ma il tema non cambia. Evidentemente ogni gradino disceso rende più «opachi» il conflitto e i personaggi drammatici; la trasparenza originale si oscura, le note specifiche di «colore locale» si moltiplicano. Ma i modelli trasmessi dal più lontano passato non scompaiono, non perdono il loro potere di riattuafizzazione. Rimangono validi per la coscienza «moderna». Un esempio fra mille: Achille e Soren Kierkegaard. Achille, come molti altri eroi, non si sposa, quantunque gli sia stata predetta una vita felice e feconda purché si ammogli; senonché, in questo caso, avrebbe dovuto rinunciare a diventare un eroe, non avrebbe realizzato l'« unico », non avrebbe conquistato l'immortalità. Kierkegaard attraversa un identico dramma esistenziale rispetto a Regina Olsen; respinge il matrimonio per rimanere se stesso, V«unico», per poter aspirare all'eterno, rifiutando la modalità di un'esistenza felice nel «generale ». Lo confessa chiaramente in un frammento del suo Giornale intimo (VIII, A 56): «Sarei più felice, in senso finito, se potessi allontanare da me questa spina che sento nella mia carne; ma, in senso infinito, sarei perduto». Ecco come una struttura mitica continua a essere realizzabile; si realizza in realtà sul piano dell'esperienza esistenzialista e, in questo caso particolare, all'infuori di ogni coscienza o influenza del modello mitico. L'archetipo continua a creare anche quando è «degradato» a livelli sempre più bassi. Prendiamo ad esempio il mito delle Isole Felici o del Paradiso Terrestre, che ha occupato non soltanto l'immaginazione dei profani, ma addirittura la scienza nautica, fino alla epoca gloriosa delle grandi scoperte marittime. Quasi tutti i navigatori, anche quelli che si proponevano un preciso fine economico, la via delle Indie, tenevano presente ancbe la scoperta delle Isole dei Beati o del Paradiso Terrestre. E, come tutti sanno, non furono pochi quelli che credettero di averli scoperti davvero. Dai Fenici ai Portoghesi, tutte le grandi scoperte geografiche furono provocate dal mito del paese edenico. E quei viaggi, quelle ricerche, quelle scoperte sono i soli che acquistarono un significato spirituale e furono creatori di cultura. Se il ricordo del viaggio di Alessandro in India durò imperituro, fu perché, assimilato alla categoria mitica, soddisfaceva al bisogno di una «geografia mitica», la sola di cui gli uomini non possono privarsi. Le basi commerciali dei Genovesi in Crimea e sul Caspio, quelle dei Veneziani in Siria e in Egitto, presupponevano una scienza nautica molto sviluppata, e tuttavia quegli itinerari commerciali «non hanno lasciato nessun ricordo nella storia delle scoperte geografiche ». Al contrario, le spedizioni per la scoperta di paesi mitici non solo furono creatrici di leggende, ma fecero anche avanzare la scienza geografica Le nuove terre e le nuove isole conservarono il loro carattere mitico anche quando la geografia era diventata scientifica da molto tempo. L'«Isola dei Beati» sopravvisse a Camóens, attraversò il secolo dei lumi, l'epoca romantica, e non ha perduto il suo posto neppure ai giorni nostri. Ma isola mitica ormai non significa più Paradiso Terrestre: è l'Isola dell'Amore (di Camoens), l'Isola del «Buon Selvaggio » (di Defoe), l'Isola di Eutanasio (di Eminescu), o l'Isola «esotica», un paese di sogno pieno di segrete bellezze, l'isola della libertà, del jazz, del completo riposo, delle vacanze ideali, della crociera in piroscafi di lusso, a cui l'uomo moderno aspira nel miraggio della letteratura, del cinema, o soltanto della sua immaginazione. La funzione del paese edeníco, privilegiato, è rimasta inalterata; soltanto la sua valorizzazione si è più volte deprezzata, dal Paradiso Terrestre (nel senso biblico) al paradiso esotico sognato dai nostri contemporanei. Senza dubbio c'è stata una «caduta», ma una caduta feconda. A tutti i livelli dell'esperienza umana, per quanto si suppongano umili, l'archetipo continua a valorizzare l'esistenza e a creare «valori culturali»: l'Isola dei romanzi moderni o l'Isola di Camoens sono valori culturali non meno delle tantissime isole della letteratura medievale. Intendiamo dire che l'uomo, se anche sfuggisse a tutto il resto, resterebbe irriducibilmente prigioniero delle sue intuizioni archetipali, create nel momento in cui prese coscienza della propria situazione nel Cosmo. La nostalgia del Paradiso si lascia scoprire negli atti più banali dell'uomo moderno. L'assoluto non si puo' estirpare, può soltanto degradarsi. E la spiritualità arcaica sopravvive, a suo modo, non come atto, non come possibilità di reale conseguimento per l'uomo, ma come una nostalgia creatrice di valori autonomi: arte, scienze, mistica sociale ecc. Avete letto? E se lo avete letto , lo avete capito? Se non lo avete capito, mettete la testa nel forno a microonde e ponticellate la chiusura : mezz'ora a massima potenza dovrebbero essere sufficienti a darvi la comprensione. Smettete di essere certi, limitatevi a pensare di credere... E bevete Falerno, al calar del tramonto...ci sara' sempre un altro tramonto. Raffaele